L’Europa e la Cina: il lamento suprematista di chi non vuole guardarsi allo specchio

Commento alla pubblicazione del report “Made in China 2025 The cost of technological leadership”

Da anni l’Unione Europea e le sue organizzazioni, come la Camera di Commercio Europea, ripetono un copione prevedibile: piangere le “distorsioni” delle politiche cinesi, puntare il dito sul “non-market approach” di Pechino, e suggerire alla Cina di adeguarsi ai dogmi occidentali. Intanto, però, l’Europa continua a perdere terreno in settori strategici, dall’automotive alle energie rinnovabili, mentre la Cina avanza con un pragmatismo spietato

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Il caso del Made in China 2025 è emblematico. Mentre l’UE dibatteva su regole antitrust, aiuti di Stato e “concorrenza leale”, la Cina ha lanciato un piano decennale per dominare le tecnologie avanzate. Risultato? Oggi Pechino controlla un terzo del valore manifatturiero globale, superando quasi UE e USA messi insieme. Eppure, anziché interrogarsi su come un paese “non-market” abbia battuto l’Occidente sul suo stesso campo, Bruxelles preferisce lamentarsi della presupposta “sovracapacità cinese” e invocare “azioni correttive”.

La sonnolenza strategica europea

La stessa dinamica si è vista nel settore automotive: l’Europa ha dormito sugli allori del motore a combustione, mentre la Cina investiva miliardi in veicoli elettrici, batterie e semiconduttori. Ora che Pechino esporta auto elettriche a prezzi competitivi, l’UE risponde con dazi e indagini anti-sussidi. Ma dov’era Bruxelles dieci anni fa, quando la Cina lanciava MIC2025? Perché non ha creato una politica industriale europea altrettanto ambiziosa?

La risposta è semplice: l’Europa è paralizzata dal suo suprematismo culturale. Crede che il proprio modello—un mix di liberalismo economico e burocrazia iper-regolatoria—sia l’unico legittimo, e invece di competere, preferisce predicare. Pechino, intanto, gioca duro ma efficace: pianifica, scala, ottimizza. E vince.

Il paradosso del “noi siamo migliori, ma loro crescono”

Il testo della Camera di Commercio Europea e la prefazione del suo presidente Jens Eskelund è l’esempio perfetto di questa ipocrisia: si riconoscono i successi cinesi, ma si liquidano come frutto di “principi non di mercato”. Si chiede alla Cina di “dimostrare impegno” verso l’UE, come se l’Europa fosse un maestro morale e non un partner in declino.

Ma quando mai Bruxelles si è chiesta se il suo attaccamento al neoliberismo dogmatico—tagli alla spesa pubblica, limiti agli aiuti di Stato, frammentazione degli sforzi—non l’abbia resa incapace di competere?

La verità è che l’UE, invece di imparare dalla Cina, preferisce la retorica della vittimizzazione. “Sono sempre gli altri a sbagliare”: la Cina è protezionista, gli USA sono egoisti, ma l’Europa? L’Europa è immacolata, anche quando la sua quota di PIL globale crolla, anche quando le sue aziende fuggono verso gli USA per i sussidi del Green Deal americano.

Serve un’Europa meno presuntuosa e più pragmatica

Se l’UE vuole sopravvivere nella competizione con la Cina, deve smetterla di piangere sul latte versato e agire:

  1. Politiche industriali coraggiose, non timide imitazioni del MIC2025 annacquate dai veti degli Stati membri.

  2. Investimenti pubblici massicci in tecnologie critiche, senza farsi paralizzare dal fiscal compact.

  3. Unità strategica, superando l’eterno conflitto tra Paesi nordici (austerity) e mediterranei (spesa).

La Cina non aspetta, e mentre Bruxelles discute di “level playing field”, Pechino ridefinisce le regole del gioco. L’Europa può ancora reagire, ma solo se abbandona il mito della propria superiorità culturale e impara—finalmente—a combattere.

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